Categoria: Dentro al bauletto

Non sono un ducatista, sono semplicemente innamorato delle moto, di tutte le moto, come di tutte le donne, bianche, rosse, blu e nere, non ho pregiudizi (tanto la mia lei non legge quello che scrivo), ma oggi sono qui per tessere le lodi di una moto che chiude la sua attività racing e lascia il testimone alle nuove generazioni.
Parliamo di sua maestà la 1098!

 

 

Ci fu un epoca in cui Ducati poteva vantare di aver il miglior designer del mondo, un uomo che si era guadagnato un posto (in realtà 2, Ducati 916 e MV Agusta F4) nel museo Guggenheim di New York per quanto fosse palesemente apprezzabile la bellezza delle linee che aveva creato. Parlo di quel genio incomparato di Massimo Tamburini. Poi il Sig. Tamburini decise di di fare le valigie e seguire la persona che gli aveva dato fiducia e gli aveva permesso di rivoluzionare il mondo delle moto, in quel lontano 1994 quando, schierata sulla linea di partenza del campionato mondiale Superbike, il nuovo modello 916, fece apparire il resto del mondo motociclistico più vecchio di un decennio.



Rimasta orfana del genio italiano, Ducati di affidò a Pierre Terblanche, bravo designer, orginale nelle sue creazioni, ma troppo distante da quanto prodotto dalla matita di Tamburini. Le sue creature non si possono definire brutte, io ho molto amato le linee del 999, ma a differenza della bellezza assoluta delle creazioni di Tamburini, dividevano sul gusto.

 



Da questo periodo oscuro, dove nemmeno i 3 titoli mondiali Superbike vinti dalla 999 bastarono a farla entrare nel cuore di tutti i ducatisti, Ducati decise di uscire ripartendo da dove aveva lasciato, ristilizzare l'ultima creatura di Tamburini, la 998, in chiave moderna. Sicuramente non un parto originale, ma l'importante era che ducatisti e "non" la amassero.

 




Insomma, la 1098, è stata ben più di un modello tra tanti, è stato un filo del discorso ripreso, è stata il ritorno ad un DNA più marcatamente Ducati, anche nelle scelte tecniche con il ritorno al forcellone monobraccio che caratterizza la produzione italiana più raffinata, con un tratto e un'impostazione più racing. Lo stesso Troy Bayliss, che ha speso molto della sua carriera sulla 999, sceso dalla 1098 dopo aver vinto il campionato, dichiarò di amare di più la nuova arrivata, di sentirla più nata per le corse. Misteri del cuore e della passione.

 




Dovrei menzionare anche altri cambi di cui la 1098 è la naturale linea di demarcazione, il passaggio di Ducati da azienta marcatamente emotiva, ad una più strutturata e votata agli utili, processo culminato con la vendita ad Audi, ma preferisco guardare ai modelli in produzione, gran bei pezzi, moto sicuramente in grado di emozionare, che starebbero bene nel mio box.

 




Ma ancora di più, la 1098 è stata fino in fondo testimone e artefice di un filo ripreso, abbandonata da Ducati perchè reputata ormai non adeguata per vincere ancora in Superbike, dopo un solo titolo, ha alzato la testa (le teste) in mano a Carlos Checa e ha riaffermato la simbiosi che lega Ducati, quella storica, quella emozionale, al campionato mondiale Superbike, con quelle vittorie negli anni 90 che hanno fatto riscoprire al mondo un marchio dimenticato o mai conosciuto ed elevandolo al rango di mito, di passione rossa come lo è quella di un altro marchio automobilistico in rosso di quella regione.

 




Un puledro di razza, una creatura tutta fuoco e adrenalina, che nella sua massima erogazione sembra fuggire. Ma ogni storia arriva al suo epilogo. 1098 anche come linea di demarcazione, forse tra passato e futuro, forse ultima rappresntante della tradizione sportiva del traliccio e della L desmodromica.

Oggi me la figuro così, con un amorevole meccanico che la guarda un attimo prima di coprirla con un telo, mentra sta lì sui cavalletti, con il piglio di un leone che dorme. Si spegne la luce. Si abbassa la serranda.

Benvenuta Panigale, c'è un nuovo capitolo da scrivere.

Wolf

 

 

 

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